Revenhill tinge “Candide” di un irreversibile nichilismo
«Voltaire: “Ottimismo, un sistema di crudeltà con un nome rassicurante”». E, pronunciate queste parole, Sarah si suicida. Buio. Cala il sipario al Teatro Argentina di Roma dopo i 120 minuti di Candide. Ma quale? Il famoso racconto del 1759 con cui l’illuminista francese sarcasticamente e icasticamente stigmatizzava, attraverso le rocambolesche avventure del giovane Candido, di nome e di fatto, il positivismo cieco e ostinato e la pretesa leibniziana di «vivere nel migliore dei mondi possibili»? La risposta è: no, non più, o meglio, non solo; non dimentichiamoci che siamo a teatro, che c’è l’arte attoriale (impressionanti tutti gli interpreti tra cui i poliedrici Filippo Nigro e Lucia Mascino), c’è la voce potente e il violino penetrante di H.e.r. che fanno da intermezzo o da contrappunto dialogico, la regia un po’ ipertrofica di un comunque sempre ispirato e geniale Fabrizio Arcuri, c’è poi alla base il testo di Mark Ravenhill, una sorta di cover del classico settecentesco che l’autore inglese, acclamato come il “nuovo arrabbiato”, “tradisce” in senso etimologico e figurato: lo trasporta dal ’700 a oggi e anche al domani attraversando epoche e geografie diverse, mescolando i più disparati generi: la farsa, la tragedia, il musical, l’instant e il pulp movie. Ma questo sarebbe il tradimento più fedele all’originale; anche Voltaire a suo modo e a suo tempo creò un’opera prismatica e caleidoscopica, un romanzo insieme filosofico, grottesco e picaresco.
L’infedeltà invece si consuma quando, soprattutto nel finale, l’umorismo, sia pur beffardo e corrosivo, del filosofo francese si tinge di un irreversibile nichilismo. Nel complesso un’opera, questa di Ravenhill, nella sostanza “politica” e nella forma “polittica”: il suo contenuto mira a denunciare il pensiero unico positivista della nostra polis, quel “gene dell’ottimismo” che
ci vuole tutti efficienti e vincenti per debellare il virus dell’imperfezione e infelicità; la sua struttura si sviluppa in una successione di quadri con vertiginosi salti temporali e spaziali a cui fa da trait d’union non tanto Candide all’inseguimento della sua agognata Cunegonde quanto la demolizione di ogni ideologia occidentale.
Nella prima scena siamo nel ’700 e l’ingenuo protagonista assiste alla rappresentazione di se stesso e della sua storia; qui la dimensione metateatrale e il gioco degli “avatar” concede qualche compiacimento eccessivo all’ego attorico. Fulminante, di contro, il secondo capitolo ambientato ai giorni nostri in una stanza d’albergo dove si festeggia il diciottesimo di Sophie
che, disgustata da ipocrisie relazionali ed egoismi sociali, compie una strage e uccide uno ad uno i suoi familiari, tranne la madre Sarah, prima di suicidarsi.
L’agghiacciante vicenda di cronaca nera si dissolve nel terzo quadro in cui la madre di Sophie vuole tradurre in film la sua tragedia per elaborare il proprio dolore e nascondere il nonsense. Quarto atto: riecco Candide settecentesco catapultato in un edulcorato Eldorado dove gli abitanti «condividono tutti gli stessi atomi» e uno spirito “new age”, fanno continui raduni, non conoscono l’idea del profitto ma hanno anche rimosso quella della morte e bandito il dolore. A Candide non resta che prendersi l’oro e salutare quelle «perfette, ottuse persone».
E siamo all’epilogo: futuro indefinito, l’ottimismo è un “botulino” da inoculare per anestetizzare e creare un’ebete atarassia, Candide viene “scongelato” e ritrova la sua Cunegonde che ha più di 400 anni, è decrepita, avvolta nella bandiera dell’Europa (trovata registica), sepolcro imbiancato che ottiene l’ultimo bacio ma non suscita alcun desiderio, icona di un Paese non emancipato, aggrappato a un ottimismo insensato. E a Sarah, incapace, a differenza dal Candido di Voltaire, di illudersi coltivando il proprio orticello, non resta che il gesto estremo. Il resto è…finzione.
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
27 Aprile 2016