Ottavia, Epica migrante
Haifa Ghemal. Un nome da segnare, da incidere nell’immaginario collettivo, degno di entrare nell’immortale elenco dei protagonisti dell’epica tragica. Un nome ripetuto decine di volte in Occident Express che ha debuttato in prima assoluta al Teatro Morlacchi di Perugia dove è in scena fino a lunedì 23 prima di intraprendere una lunga tournée che si chiuderà a maggio del 2018. Haifa Ghemal è il nome di un’anziana donna, una nonna che vive un’odissea dei nostri tempi, anzi un’eneide, perché proprio come Enea con sulle spalle il vecchio padre Anchise, anche lei, con al collo la nipotina Nassim di quattro anni, fugge dalla città natale devastata e messa “ferro ignique”. Il “ferro e il fuoco” in questo caso sono i mitra dei miliziani del Daesh, la sua Troia è Mosul, la sua storia è terribilmente vera.
Ma l’impresa è leggendaria: cinquemila chilometri a piedi, 118 giorni, dieci frontiere attraversate, dalle terre aride del nord dell’Iraq fino ai ghiacci del mar Baltico, da Mosul a Stoccolma, nascosta sotto le pecore in un camion, strisciando nuda ricoperta di catrame per un chilometro in un tubo sottoterra, correndo e saltando su un treno merci in corsa col piede trinciato sotto le rotaie, stipata nella stiva di un barcone, naufragata, sepolta sotto la neve, schiacciata con altre migliaia di anime in pena davanti al filo spinato, rannicchiata nella gabbia di uno zoo abbandonato, con venti ovuli di eroina nello stomaco per un passaggio di 14 ore in auto, per 12 ore ammassata in un container, tutto senza mai separarsi dalla sua bambina.
«Il viaggio di Haifa si aggiunge a quella lista di miti davanti a cui ogni Omero chinerebbe la sua testa: sono leggende già pronte, impossibile non dargli forma scritta». È questa l’onesta e arguta ammissione di chi nel marzo 2016 ha incontrato Haifa, l’ha ascoltata per ore per poi versare e ricreare nero su bianco dolori, emozioni, verità. È uno dei più prolifici e penetranti drammaturghi italiani contemporanei, quel Stefano Massini che già con Lehman Trilogy, 7 Minuti, L’ora di ricevimento, solo per citare alcuni dei suoi lavori, aveva già dimostrato di possedere la peculiarità più preziosa per un artista, quella di individuare, prendendo in prestito il titolo di un folgorante racconto di Henry James, «la cifra nel tappeto», ovvero quella capacità di scavare e scovare come un rabdomante nella rete di accadimenti quotidiani della cronaca una trama ad essi sottesa che illumina le dinamiche sociali.
La storia infatti di questa ultrasessantenne che stringe al petto Nassim, il suo fragile futuro di 4 anni, è il paradigma di un’epoca intera, un’epopea che si consuma sotto i nostri occhi spesso distratti, distolti, indifferenti se non maldisposti, è il calvario del terzo millennio, l’attuale via crucis delle rotte e dei flussi migratori in cui ancora una volta il sacro si ribalta in massacro, l’hospes in hostis, l’ospitalità in ostilità. A dare voce, movenze e sapienza interpretativa a una realtà dai contorni mitici, a incarnare sulla scena la verità di Haifa, una Ottavia Piccolo talmente in empatia col personaggio da avvertire la necessità di una salutare e funzionale attorica distanza: «A un certo punto ho dovuto mettere in atto una sorta di straniamento brechtiano per non farmi travolgere dall’identificazione e donare al personaggio non solo una linfa emotiva ma anche una lucidità razionale». La Piccolo non ha alcuna remora ad ammettere che Haifa e la sua drammatica vicenda l’ha cambiata: «Mi ha dato una consapevolezza nuova, ha conferito ai miei occhi una luce diversa». Mentre il sentimento che offusca e acceca, secondo la grande attrice del palcoscenico italiano che in tempi non sospetti ha per prima creduto e scommesso nel talento drammaturgico di Massini, è proprio la paura che produce affermazioni quali «rimandiamoli a casa loro», «aiutiamoli nel loro paese».
«Raccontare questa storia mi aiuta a non voltare la testa dall’altra parte». E di certo timori non li ha avuti Ottavia Piccolo nel reggere la scena per novanta minuti di narrazione poliedrica, ora con accenti pacati, ora pulsanti, con un soffio di voce o con un’esternazione palpitante. Un’impressionante e articolata partitura recitativa dalle mille sfaccettature ritmiche incastonata all’interno di uno spartito in cui deuteragonista è l’Oma, l’Orchestra Multietnica di Arezzo, diretta da Enrico Fink che da più di dieci anni guida e amalgama un ensemble di musicisti provenienti da undici paesi, culture, sonorità diverse. Davvero non poteva esserci corpo e realtà musicale più opportuna in questo caso in grado di fare da contrappunto, ma soprattutto di dialogare e dare corposità fonica a luoghi, situazioni, emozioni con strumenti disparati, dal violino al salterio, dall’oud al flauto.
Un allestimento in cui nulla è superfluo, tutto è necessario, così come il reiterato monito finale, ‘non sprecate l’aria!’, che il trafficante di esseri umani rivolge ai migranti pigiati nel container e che con pregevole intuizione si trasforma progressivamente in un incalzante e struggente appello, reindirizzato alla platea tutta, a non sciupare il dono della vita tout court.
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
20 Ottobre 2017