Per Ginetta e Pino il teatro è casa
Prendete un’ancestrale dose di estraneità, aggiungete abbondanti manciate di tenacia contaminata con punte di testardaggine, spargete numerose foglie di memoria sempreverde, versate compatti e radicati grumi di passione teatrale e ingenti e invincibili porzioni di amore per l’umanità, amalgamate e agitate il tutto per almeno 60 anni e avrete Ginetta Maria Fino. Se fosse un piatto sarebbe una pietanza più unica che rara, di quelle che risvegliano antichi e mai dimenticati sapori e saperi di una volta, che suscitano emozioni sdilinquenti come la ratatouille che viene servita nel finale dell’omonimo famoso film di animazione.
Ma in realtà è una donna, moglie, madre, artista che in effetti si dà in pasto, perché dal 2007 viviseziona e condivide la sua vita portandola in ogni luogo che si presti alla magia del teatro, dal palcoscenico all’aula di una scuola, al focolare domestico. Tre giorni fa l’hanno ospitata i sempre schietti e accoglienti Paola Berselli e Stefano Pasquini del Teatro delle Ariette nella Valsamoggia, nel loro storico e prezioso laboratorio in aperta campagna bolognese. Lo spettacolo, ovviamente autobiografico, si intitolava in questo caso Sur les bords de la France, in sintesi la storia di una bimba nata in Francia da genitori irpini semianalfabeti ma umili e indefessi lavoratori che della terra, dell’agricoltura conoscevano ogni segreto al punto da far rinascere piante di tabacco date per spacciate. Cahors e il fiume Lot sono i territori gentili che questa numerosa famiglia meridionale accoglie con calore al punto che agli occhi della piccola “Ginette” dovettero apparire come un eden bucolico e delicato. Ma quel paradiso fu presto perduto e il 30 novembre del 1963 Ginette muore e rinasce all’anagrafe italiana come “Ginetta” quando con i suoi familiari diventa migrante di ritorno e conosce paradossalmente nella sua patria d’origine ostilità, diffidenza e discriminazione. Da cittadini rispettati e perfettamente integrati che erano in Oltralpe divengono “marocchini”, come li appellavano a Pescarola nell’estrema periferia di Bologna. Ginetta si chiude per un anno in un mutismo assoluto, vive la condizione di straniera nel suo deserto di parole e ne esce aggrappandosi a due virtù per lei assolute: lo studio («studia che saprai sempre difenderti», le ripeteva costantemente sua madre) e l’insopprimibile amore per l’umanità che le ha permesso di trarre insegnamento dalle umiliazioni e le ferite subite portandola a lottare per il valore della diversità e dell’integrazione.
È una storia semplice, ricca di dettagli concreti e commoventi anche se a volte il tratto poetico non viene portato a pieno compimento così come quello narrativo appare invece evidentemente formalizzato. Sono 60 minuti comunque di estrema verità spesso lacerante ma addolcita dalle musiche originali di Francesco Paolino e Stefania Megale che dal vivo si alternano all’organetto, al clarinetto, alla sega musicale e alla diamonica. Ma è soprattutto un racconto che fa comprendere appieno quali erano le premesse educative e i talenti di una donna che dopo molti anni avrebbe dovuto affrontare la sua prova più grande, la più dolorosa, la croce più pesante da sopportare. La memoria, il rispetto per la vita e l’amore per l’arte di Dioniso sono ingredienti infatti che hanno attraversato e reso sapida sì tutta l’esistenza di Ginetta ma che hanno trovato la loro più esaltante collocazione nella tragica e incredibile vicenda vissuta con suo marito Giuseppe Mainieri, detto “Pino”. Sono le 17.30 del 6 febbraio 1996 quando la loro vita e carriera di giovani artisti attivissimi nel teatro di impegno civile viene drasticamente sconvolta da un evento traumatico. Lui, Pino, ha un incidente con la moto, terribile trauma cranioencefalico, coma profondo, la diagnosi è spietata: decesso imminente. Ma lei, Ginetta, non ci sta, non si arrende e va contro tutto e tutti, persino contro l’inoppugnabile logica della medicina e della scienza: «Suo marito ha il cervello spappolato» le viene anche brutalmente detto. Lei comunque non accetta la morte cerebrale del marito e la sua caparbietà le dà ragione. Pino esce dal coma. Ma sarebbe destinato a una vita vegetativa se lei, sempre andando contro tutto e tutti, non decidesse di portarselo a casa per vivere 11 anni di calvario. Perché non esistono risvegli miracolosi, la stessa parola è fuorviante in quanto non si verifica mai un passaggio immediato e repentino da uno stato di totale incoscienza al pieno recupero delle proprie facoltà. Esiste solo un percorso lento, faticoso, doloroso di cura e premura assidue che richiede presenza costante e rischia di annichilire forze, energie e speranze. Ma Ginetta non molla e a chi considerava illogica e assurda la sua abnegazione ripeteva sempre: «Una persona non è come una scarpa che quando non funziona più la butti via!».
Una sorta di Via Crucis la sua, durante la quale Ginetta impara a rianimare e a riamare Pino che era diventata un’altra persona con i suoi handicap evidenti: «Ho lottato contro sorella morte e abbiamo vinto entrambe – ci svela in modo spiazzante – perché il Pino di prima non c’è più, è morto e ho dovuto riscoprire l’amore per un nuovo Pino». E a suggello di questa incredibile esperienza cita i versi finali di una sua poesia: «Icona di quello che fosti, feticcio onnipresente, t’amo». Ma anche questo calvario ha avuto la sua sorprendente e vitale resurrezione. Ginetta e Pino da 11 anni sono tornati a rivivere anche sul palcoscenico portando la loro straordinaria testimonianza attraverso uno spettacolo – fusione di vita e teatro – grazie al quale a ogni rappresentazione Pino recupera un tassello per la sua memoria tutta da ricostruire. Emblematico il titolo: Non mi ricordo. Ma indimenticabile è la loro storia, tutta racchiusa in tre sole parole: “Amor vincit omnia”.
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
29 Marzo 2018