“Barbablù”, l’eterno spettro del femminicida
C’era una volta Barbablù il problema è che c’è tuttora. Lo ha argutamente dimostrato Costanza Di Quattro con la sua opera in scena fino a domani al Teatro Carcano di Milano che ha prodotto lo spettacolo destinato a una lunga tournée in Sicilia. Intitolato laconicamente Barbablù chiariamo subito che si ispira indubbiamente alla fiaba di Charles Perrault del XVII secolo ma di essa ne conserva solo l’intreccio crudele e cruento, cupo e tetro che vede il famigerato e facoltoso personaggio dotato di una ributtante barba blu e soprattutto di una efferatezza che lo porta a eliminare senza alcun patema d’animo sei mogli una dopo l’altra. Sappiamo che la favola di Perrault probabilmente evoca la misoginia del re inglese Enrico VIII, ma forse più esplicitamente affonda nel tardo medioevo rifacendosi al francese Gilles de Rais, erede di una fortuna colossale, eroe nazionale alla presa di Orléans, ma persona atrocemente ambigua e rea di inenarrabili massacri di centinaia di fanciulli innocenti dal 1432 al 1440. In realtà il favolistico autore francese riduce Barbablù a un uxoricida seriale che giunto al settimo matrimonio decide di partire per lavoro e di mettere alla prova l’obbedienza dell’ennesima moglie invitandola a «non aprire quella porta», l’unica che tra le tante del castello doveva restare chiusa e inaccessibile. Naturalmente la donna infrangerà il divieto e ne conseguirà una valanga di catastrofici e fatati accadimenti: dalla chiave incantata che si macchia di sangue indelebile, alla macabra scoperta dei cadaveri delle sei mogli precedenti appesi al soffitto con ganci da macelleria, all’inevitabile condanna del marito infuriato, allo stratagemma della moglie che chiama in causa i suoi fratelli, fino all’apparente lieto fine con la morte di Barbablù. Non proprio una favola soporifera per conciliare il sonno dei bambini ma la classica morfologia delle “fabule” che presentano esemplari e drammatici nodi antropologici. E in particolare in questo caso subdolamente viene fatta serpeggiare la fuorviante morale che la curiosità può essere fatale e colpevole foriera di disgrazie.
Il testo di Costanza Di Quattro però ha l’innegabile merito di spazzare via ogni perniciosa ambiguità e, con una scrittura chiara e densa, getta una luce di inquietante verità su Barbablù che diventa icona di un mai sopito cinico maschilismo. Questa chiave di lettura è sagacemente assecondata dalla funzionale regia di quel cantore yiddish, avvezzo a creare mirabili sintesi di “teatro musicale”, che è Moni Ovadia il quale stigmatizza nettamente il personaggio di Perrault cogliendone pienamente la sua stringente valenza contemporanea: «Barbablù è un topos della cultura occidentale, è il paradigma dell’incapacità maschile di stabilire una relazione col femminile. Prima ancora di essere un femminicida è l’essenza del maschilismo che, non essendo in grado di accogliere e apprezzare la divina capacità creatrice della donna, la assoggetta e la reifica fino a sopprimerla».
L’ombra della violenza di genere si allunga sempre più durante tutto lo spettacolo man mano che il serial killer procede con la sua mattanza che tenta di giustificare con ragionamenti discriminatori tanto capziosi ed esiziali quanto purtroppo tutt’oggi diffusi. Un’interpretazione, dunque, inequivocabile della figura di Barbablù che però non rischia mai per tutti i settanta minuti dell’allestimento di risultare monotona e monolitica per diverse e tutte calzanti ragioni: perché lo sviluppo drammaturgico creato dalla giovane autrice presenta continui spiazzamenti all’interno dello stesso personaggio che vive brechtiani straniamenti con autoanalisi a volte ironiche, altre pungenti e sferzanti sulle distorsioni sociali; perché non si tratta di una semplice narrazione monologante bensì di un vero e proprio viaggio sonoro con musiche che dialogano e fanno da contrappunto eseguite dal vivo da uno ieratico Antonio Vasta e canti che a volte suggellano in modo struggente gli strazi e gli inferni di chi confonde l’amore col possesso altre volte riproducono i ritmi ossessivi di patologiche paranoie; perché un contributo efficace lo offrono inoltre i costumi e le installazioni di Elisa Savi fortemente simbolici, polisemici e mai didascalici.
Ma soprattutto per un motivo: perché Barbablù è Mario Incudine. Volutamente non si è fatto finora cenno all’interprete di questa messinscena unicamente perché le riflessioni su questo eclettico e poliedrico artista e cantastorie siciliano, intriso di cultura cuntista e in possesso di una rarissima potenza espressiva che attraversa il suo corpo e la sua voce, avrebbero potuto offuscare ogni altra analisi critica. Incudine, autore anche delle musiche, non recita Barbablù, ma, accogliendo il suggerimento del regista Ovadia, lo incarna; canta e incanta cogliendo ogni sfaccettatura, declinando ogni registro utile, epico o intimista, dilatato o sincopato, per restituire, grazie a uno slalom fra svariati temperamenti, un personaggio vivido e livido, freddo e schizofrenico, comunque problematico. E l’impareggiabile e inesauribile attore e cantore conferisce poi nel suggestivo mistico finale una terrificante aura faustiana al suo Barbablù che brucia in eterno tra le fiamme dell’inferno perché dispera, nega e non crede nella misericordia di Dio.
Quel che resta alla fine è la lancinante inquietudine che un tale mostro, come nei peggiori incubi, possa abitare in qualche angolo oscuro dentro di noi. Un’eventualità evitabile in un solo modo secondo Moni Ovadia che non esita ad attingere alla sapienza dell’esperienza biblica: «Bisogna cancellare il mito fuorviante della prepotenza e perseguire l’etica della fragilità perché la redenzione parte dagli ultimi. Sarà un caso che i patriarchi dell’ebraismo siano tutti degli “handicappati”?» Abramo un folle, Isacco cieco, Giacobbe claudicante, Mosè balbuziente. Quando prenderemo coscienza dei nostri handicap e delle nostre debolezze, allora scopriremo la vera forza e Barbablù sarà davvero sconfitto».
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
25 Novembre 2019