Mauri, l’insostenibile vacuità di Re Lear
C’era una volta un Re che aveva tre figliole e voleva sapere quale di loro l’amasse di più. Sembra l’incipit di una fiaba sentimentale. In realtà è l’inizio di un funesto dramma elisabettiano che parte da un attacco di vanità per finire nella più assoluta e disgregante vacuità. Infatti il monarca in questione pretende di quantificare e valutare l’amore filiale in base alla pomposità degli orpelli verbali delle dichiarazioni delle figlie così poi da abdicare, dividere il reame e distribuirlo in parti direttamente proporzionali all’ars retorica delle tre discendenti, due delle quali faranno a gara a chi formalizza le più iperboliche e ampollose esternazioni d’amore, mentre la terza si rifiuterà di partecipare all’ipocrita tenzone e dirà: «Niente!». Lei sarà pertanto ripudiata e cacciata perché «niente nasce dal niente», sentenzia il regale padre ferito nel suo narcisistico affetto; mentre le altre due sorelle si spartiranno l’eredità tutta. Il re si illuderà poi di poter trascorrere la sua avanzata terza età coccolato e vezzeggiato a turno dalle due figlie a parole amorevoli e accoglienti ma in realtà ben presto pronte a disfarsi di un così lunatico peso che quindi si ritroverà solo e in compagnia della propria disperazione, impazzirà, tardi si ravvedrà e amaramente si pentirà prima di morire di dolore dopo aver visto perire l’unica figlia che l’amava davvero, quella parca di parole ma schietta di cuore.
Ma chi può essere così insulso e pazzo da avanzare una tale astrusa e infantile richiesta, smembrare in questo modo così capriccioso e irrazionale un regno, svilire la propria autorevolezza e immiserire la propria vecchiaia? C’è un solo personaggio in grado di compiere una siffatta matta, sciagurata premessa alla disfatta: l’anziano protagonista della più rovinosa e ineluttabile delle tragedie shakespeariane, King Leardove tutto è definitivamente nero e funereo e in cui si celebra il morire in tutte le sue declinazioni e involuzioni. A partire dalla vecchiaia qui sinonimo di stoltezza e contrario di sapienza: «Non dovevi diventare vecchio prima di diventare saggio», dirà con una battuta fulminante il fool a Lear ormai demente e depotenziato di ogni virtù. Ma la decadenza fisica, morale, sociale, relazionale, lo sfacelo, il senso di finitudine, fragilità e decrepitudine investe non solo l’anziano re ma in pratica tutti i personaggi, in primis il Conte di Gloucester, il quale anche lui si scaglia empiamente contro il figlio buono ingannato dall’altro figlio illegittimo. Persino la parola è svuotata, un involucro sterile e falso sulla bocca di Goneril e Regan, le due loquaci figlie o un “logos” che non può avere più veritiera forma come dimostra l’afasia dell’onesta Cordelia. Quindi per sostenere in teatro l’insostenibile vacuità di Re Lear ci vuole una buona dose di incoscienza oppure bisogna essere Glauco Mauri il quale, dopo aver già sopportato quest’ onere interpretativo nel 1984 e nel 1999, ha debuttato al Teatro della Pergola di Firenze e ha affermato: «Questa è la volta giusta perché Re Lear dovrebbe avere più di 80 anni e io ne ho 89». Al di là del dato anagrafico c’è un’altra coincidenza e sintonia molto più profonda che permette all’artista pesarese di comunicare una verità interpretativa di inusitata bellezza: la compassione, nel senso autentico di saper soffrire all’unisono col personaggio. Le fragilità, le meschinità, le sofferenze, i limiti fisici, mentali e morali di Lear sono vissuti da Mauri con un’empatia tale da creare un apparente paradosso: leggerezza nella gravità. I toni sono infatti spesso flebili, i movimenti limitati e controllati, certo per ragioni di età, ma anche per trasformare in strazio interiore l’urlo e il furore di almeno due delle scene che richiederebbero un violento dispendio di energie, la tempesta con la furia della natura e del senno e il finale con l’agnizione della morte di Cordelia.
Lineare, chiara ma non superficiale è anche la regia di Andrea Baracco come sempre ricco di idee che valorizzano le peculiarità immaginifiche del teatro. Questo allestimento, che dopo Firenze sarà dal 21 gennaio al 2 febbraio al Teatro Eliseo di Roma, colpisce dal punto di vista scenografico per la grande cubitale scritta «King Lear» che sovrasta ingombrante e mutevole come il carattere del suo protagonista, così come imponente era l’enorme mantello con cui Mauri-Lear entrava in scena nello spettacolo del 1999. L’impostazione registica di Baracco mira argutamente alla semplicità e all’evocazione simbolica con la divisione del palco in due duttili spazi principali uno sopra l’altro e una mega-corona che prevedibilmente ma efficacemente viene fatta calare alla fine dall’alto e ingabbia l’unico superstite della tragedia mentre immagini di sgretolamento vengono proiettate sottolineando un po’ pleonasticamente l’idea di una «terra desolata».
Re Lear è uno spettacolo corale e infarcito di sotto-trame, pertanto apprezzabile è anche il lavoro della compagnia tutta tra cui spicca quello dell’immarcescibile Roberto Sturno pienamente calato nei panni di Gloucester pur con qualche esubero di energia e di Dario Cantarelli, un «Matto» sorprendentemente fuori da ogni stereotipo. Coerenti tutti gli altri anche se non mancano toni eccessivamente isterici che producono momenti di saturazione. Nel complesso uno spettacolo che, come giustamente osserva Baracco, riesce a riflettere «la luce sotto il nero della tragedia, la luminosità della conoscenza».
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di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
27 Gennaio 2020