La Metamorfosi comincia in scena
Il mondo è diventato all’improvviso immondo. Un tranquillo commesso viaggiatore una mattina si sveglia e si scopre «trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo». Vittima di questa trasformazione animalesca e paradossale è Gregorio Samsa, lo sfortunato protagonista de La metamorfosi di Franz Kafka. Conseguenze di questo terribile mutamento sono isolamento, depressione, alienazione, annichilimento e, da parte della famiglia (padre, madre e sorella di Gregorio), separazione, distanziamento e repulsione. Tutti termini e concetti tristemente familiari al giorno d’oggi per le famigerate ragioni legate all’emergenza sanitaria ma che rappresentano altresì le parole chiave e i temi cruciali dell’opera pubblicata dallo scrittore boemo ben 105 anni fa. Un’inquietante e visionaria aderenza che dovrebbe spingere a rileggere il cupo, grottesco e allegorico racconto dell’artista esistenzialista. Il direttore del Teatro di Roma, Giorgio Barberio Corsetti, è andato oltre. Aveva pensato di allestirlo al Teatro Argentina di Roma in prima nazionale in questa martoriata stagione post-Covid, ma la seconda ondata pandemica ha sommerso ogni strenua velleità organizzativa e rinviato il debutto si spera non alle calende greche. Ma se, da addetto ai lavori, si varca la soglia del teatro di Largo Argentina della capitale si entra in un’inedita dimensione atemporale, un’esperienza incantevole e commovente, notevole e sorprendente e si assiste a quello che è sempre stato il sogno di ogni regista italiano: poter provare uno spettacolo senza avere l’assillo di una scadenza, anzi senza sapere quando andrà in scena davanti al pubblico, libero di creare, sperimentare nuove soluzioni, affinare i meccanismi drammaturgici perché il tiranno “Chronos” è stato momentaneamente deposto.
Certo questa utopica condizione non è il frutto di una illuminata politica culturale bensì di una buia chiusura al pubblico dei sipari e il rischio di assomigliare agli incoscienti orchestranti che suonavano sull’affondante Titanic diventa sempre più concreto. Ma il regista e direttore artistico Barberio Corsetti preferisce in questo caso un altro ben più incoraggiante ed edificante paragone.
«Mi riconosco di più nelle parole che il grande compositore russo Shostakovich pronunciò alla radio il 16 settembre del 1941 ai suoi concittadini, in una Leningrado assediata dalle truppe naziste, invitandoli a difendere l’arte seriamente minacciata, a continuare a lavorare con la stessa onestà e dedizione, a non abbandonare il posto di lotta. D’altra parte non posso farne a meno, anche se non potessi accedere al teatro continuerei a immaginare scenari e possibili spettacoli da offrire al pubblico. E poi c’è anche una forte analogia tra la nostra peculiare situazione di sospensione e provvisorietà e la natura delle opere kafkiane che non arrivavano mai a un compimento».
Ma un precursore della fusione multidisciplinare, della mescolanza fra le arti come Giorgio Barberio Corsetti quanta frustrazione o smarrimento prova nel vivere un periodo in cui parole come contaminazione e contatto sono diventate uno scandalo, un tabù e rimpiazzate da distanziamento, isolamento e sanificazione?
«Dal punto di vista prettamente artistico non ho rinunciato affatto alla simbiosi fra le varie discipline; sul piano pratico del rispetto dei protocolli sanitari ho cercato di fare di necessità virtù. Gli abbracci, i contatti fisici e il passaggio diretto di oggetti, attualmente vietati, li abbiamo ribaltati in divertenti incidenti in perfetta coerenza con lo spirito del testo che è assolutamente tragicomico».
L’alienazione, l’isolamento, la separazione da ogni forma di socialità, la mortificazione sembrano essere termini tratti da un’accurata diagnosi delle conseguenze della pandemia. In realtà sono le evidenti criticità che attraversano questo racconto di Kafka del 1915…
«In effetti la scelta di allestire La metamorfosi scaturisce dal desiderio di comunicare attraverso il teatro la portata quasi profetica e universale del testo di Kafka. La ripugnanza, la maldicenza, la depressione, l’emarginazione, l’incomprensione e l’incomunicabilità, tutte condizioni che affliggono Gregorio, che da uomo si sveglia scarafaggio, rischiano di travolgerci anche oggi, soprattutto se non ne siamo consapevoli. Un’altra implicita ma innegabile denuncia che emerge da questo capolavoro riguarda il cinismo del sistema produttivo che non può incepparsi e sacrifica la diversità sull’altare dell’efficienza. È ancora peggio: c’è una percezione della macchina sociale e di quella burocratica ed economica come di un totem che schiaccia e annulla completamente la libertà individuale al punto che la persona non ha più speranza».
Nelle opere di Kafka c’è una specie di metafisica al contrario, una metafisica della negazione. La sua regia si muove su un delicato equilibrio fra reale e surreale. Una scelta dettata dallo spirito del testo?
«Assolutamente sì. Kafka ci fa entrare con la sua scrittura in un universo parallelo e si muove sempre su un doppio binario: il quotidiano deraglia nell’onirico, l’angosciante dramma è venato da una fortissima ironia, il realismo minimalista si colora di un noir da incubo. Di certo Kafka riesce a ipnotizzare lo spettatore. Non è mai autoritario nei suoi confronti, ha uno sguardo sempre laterale, obliquo, dal basso, proprio come quello di un piccolo insetto, ma incredibilmente colmo di compassione e profondissima umanità».
Qual è stata la difficoltà maggiore nel preparare questo lavoro?
«Indubbiamente quella di evocare l’immagine dell’uomo Gregorio mutato in insetto. Bisognava creare un corpo immaginario, non poteva essere un’operazione mimetica, l’attore (Michelangelo Dalisi) doveva inventare e attraverso la parola dare fisicità, far esistere nominando, utilizzare la forza della poesia. E ci è riuscito a mio avviso».
Qual è la metamorfosi che Giorgio Barberio Corsetti augura a se stesso?
«Vorrei viaggiare verso alte vette, con la libertà che avevo da ragazzo quando partivo senza una scadenza. Sarà una reazione all’essere ora rinchiusi in casa, ma vorrei andare per interminati spazi, planare su nevi eterne…». In pratica vorrebbe essere vento. «Sì, esatto».
E la metamorfosi che invece auspica per il teatro?
«Che il teatro italiano diventi un vaccino contro il virus, un antidoto alla depressione, all’isolamento. Anche perché il teatro è un farmaco salutare che crea uno spirito comunitario proprio nei momenti di maggiore conflittualità e divisione».
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di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
18 Novembre 2020