Che gran “Karnival” con il Balletto Civile
Un carnevale che non dissimula, non maschera, non confonde né inebria, non stordisce, non evade né infonde pazza gioia. Un carnevale che smaschera, illumina, sferza e sferra lucidità, sveglia, svela e leva la carne, come da significato etimologico. È il Karnival di Michela Lucenti prodotto da ERT, un viaggio di 75 minuti di suoni e visioni, parole e pantomime, storie emblematiche e cronache minimali, uno spettacolo di teatro-danza in linea col percorso di Balletto Civile che da 20 anni offre esperienze animate da forte tensione etica. Dopo aver debuttato per VIE Festival a Bologna infatti Karnival si appresta a scuotere le coscienze di altre platee e approderà a Udine il 2 dicembre al CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, al Teatro Storchi di Modena domenica 4, il 6 e 7 dicembre a Torino per il Teatro Piemonte Europa e il 14 al Teatro Bonci di Cesena.
Del consueto immaginario collettivo carnascialesco gli spettatori non riusciranno a individuare nulla o quasi, ma coglieranno appieno la funzione rituale della festività che prepara e predispone animo e corpo a indagare le verità essenziali della nostra esistenza. La profondità vertiginosa di questa missione però non crea nulla di astratto e vago, anzi traspare in superficie, sull’epidermide dei corpi, con un verbo che si fa carne, materia concreta, pulsante, dando luogo a un’umanità variegata, a personaggi ansiogeni ognuno a rincorrere i propri guai e demoni animati da una danza di base hip hop concisa, veloce, parossistica, incompiuta, sincopata che sfocia in una comunicazione impossibile o da canti e sonorità sospese e dilatate che intrappolano, o da violenti drum e percussioni dal vivo che alienano.
In questa ricca e prismatica partitura fisica e musicale si stagliano alcune figure paradigmatiche alle prese con le loro micro tragedie e tutti in un modo o nell’altro diversamente ossessionati: la cantante in crisi di ispirazione che non riesce a dar forma e sostanza al nuovo incompiuto disco, l’imbalsamatrice avviluppata nei misteri della morte fisica, uno scalatore assillato dal mito della figura paterna onnipresente e frustrante, un prete in crisi vocazionale, una cameriera che fa una brutta e grottesca fine, la padrona dell’hotel che dà luogo nel finale a una tanto feroce quanto angosciante e impotente danza Aikido ad armi bianche. Questi i loro micro affanni; di macro c’è la loro comune condizione di solitudine a cui giungono dopo un processo di scarnificazione, un levare la carne, il loro carnevale per l’appunto. E così giunti di fronte all’estrema presa di coscienza della propria finitudine questi personaggi mostrano tutta la loro impotenza e inadeguatezza. Una visione dunque dura e cupa quella con cui Michela Lucenti chiude il suo Karnival che peraltro non lesina momenti coloriti e caleidoscopici.
Ma la fondatrice di Balletto Civile non ha dubbi sulla necessità al giorno d’oggi di una denuncia così aspra: «Il tempo che stiamo vivendo è scuro, come artisti sentiamo un peso enorme, sentiamo una mancanza di ritualità, c’è tanta morte intorno a noi e siamo senza una comunità. Di conseguenza i ruoli di ognuno di noi diventano maschere, è come essere confusi dentro un enorme carnevale; i personaggi in scena sono talmente egoisticamente chiusi nel loro mondo che non riescono ad accedere al tragico come si evince dalla sequenza finale in cui le urla agghiaccianti sono la traduzione sonora di questo fallimento». La via d’uscita da questo vicolo cieco e bieco è per la Lucenti una sola: «Nel momento in cui questo egoismo ci isola, depotenzia il rito, svuota la chiesa e ci impedisce di esorcizzare la morte c’è bisogno di una ritualità che venga dalla fede, dalla comunità. Ne abbiamo estremamente bisogno noi come artisti e tutti come creature». RIPRODUZIONE RISERVATA
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
5 Dicembre 2022