Hedda Gabler tra finzione e realtà
Non c’è da stare comodi, non si sta tranquillamente seduti in poltrona nella semioscurità della platea, protetti e schermati dalla quarta parete, immersi nella “sospensione dell’incredulità” a fare un viaggio nei drammi altrui in attesa di una rassicurante catarsi collettiva. È tutto scomodo invece: si sta appoggiati su panche, coi volti alquanto illuminati intorno a una scena movibile, inquieta, liquida, sempre sollecitati affinché nulla risulti credibile più di tanto e invitati a fare una gimkana nei rovelli interiori per giungere a un traguardo che non è il sospirato punto di arrivo, ma di ripartenza. Nel senso etimologico di “vertere altrove”, deviare, divergere, si tratta di un vero e proprio “divertimento” che comunque non lesina sorrisi pur ispirandosi o, meglio, affiancandosi e prendendo a pretesto uno dei drammi più tormentati e dolorosi di Ibsen: Hedda Gabler che in questo caso diventa Hedda. Gabler. come una pistola carica, la prima vera produzione stagionale del Piccolo in scena al Teatro Studio Melato fino al 22 dicembre e firmata da Liv Ferracchiati.
D’altra parte chi frequenta i teatri sa bene che dal giovane e talentuoso performer, regista, scrittore umbro tutto c’è da aspettarsi tranne che la certezza. Ed è giusto e bello così perché, come ammoniva Bertold Brecht, «se la gente vuole vedere solo le cose che può capire non dovrebbe andare a teatro; dovrebbe andare in bagno». Pertanto se avete bisogno di una facile e agile comprensione tenetevi alla larga in questi giorni da via Rivoli 6 a Milano; se invece siete ben disposti a smarrirvi, a perdervi, a vivere una fibrillante e stimolante confusione allora andate di buona lena e mettetevi su quelle panche belli scomodi pronti a camminare come acrobati su una corda senza rete. Ma che ha combinato stavolta l’anticonvenzionale artista di Todi autore della Trilogia sull’identità? Quello che meglio sa fare: spiazzare, creare slittamenti, smarrimenti, scardinare i punti di riferimento. Dopo aver letto praticamente l’opera omnia del drammaturgo norvegese (l’approccio nei confronti degli autori che lo interessano è totale e quasi maniacale, come lui stesso ci confida) è giunto a una conclusione: «In tutti i drammi di Ibsen – ci svela Ferracchiati – ho sempre intravisto la dicotomia fra vocazione e dovere, ossia tra una natura più dionisiaca, selvaggia, per certi versi vitale ma anche più distruttiva, e il dovere che rimanda alla forma, all’ordine, alle regole sociali e alle convenzioni, all’apollineo insomma. E questa dicotomia è particolarmente evidente anche in Hedda Gabler. Hedda e Løvborg, due dei protagonisti, sono in disequilibrio fra i due poli, tra il vivere in maniera sregolata e lo stare dentro le gabbie sociali. Sono “come una pistola carica”, come da sottotitolo dello spettacolo, sono personaggi pronti a esplodere, non riescono ad agire davvero e a dare adito alla loro vocazione, la reprimono e poi ovviamente esplodono per troppa repressione».
Spontaneo chiedersi a questo punto cosa ne resta dell’intreccio originale del dramma borghese di fine Ottocento: tutto sommato la storia rimane, a volte in filigrana, altre in primo piano, altre ancora troncata e poi riannodata. C’è la giovane Hedda Gabler, ambiziosa ma frustrata perché sposata solo per interesse economico a un uomo mediocre, aspirante professore universitario; c’è Løvborg, intellettuale geniale, una volta libertino e amico intimo di Hedda, che ha scritto un capolavoro, un manoscritto rivoluzionario che a un certo punto, dopo una serata di gozzoviglie, perde per strada, viene recuperato dal marito di Hedda la quale lo brucia; Løvborg disperato minaccia il suicidio, Hedda lo istiga e gli regala una sua pistola affinché porti a termine “in bellezza” l’insano gesto, ma lui muore invece accidentalmente, lei viene incastrata e a sua volta si suicida. Fin qui Hedda Gabler, la trama in estrema sintesi; accanto, dentro e fuori Liv Ferracchiati che, nella duplice veste di se stesso, in apparenza, e di Løvborg, nella finzione drammaturgica, esplora, viviseziona, dialoga con l’originale creando un racconto parallelo e intersecante caratterizzato dal meccanismo dell’auto-finzione autobiografica. In pratica lo sviluppo narrativo classico viene prima introdotto e poi interrotto e commentato dagli attori in scena che entrano ed escono dai personaggi ponendo, lo stesso Liv in primis, questioni minimali o esistenziali, dal «perché non indosso la parrucca visto che il mio personaggio è biondo e riccio?» al «rischio di vivere solo nelle proprie creazioni», dalle disquisizioni sul drammatico suicidio finale al dubbio se fare o no «la pasta con le zucchine » dopo lo spettacolo. In pratica si assiste alla sempre vertiginosa fusione e confusione fra finzione e realtà, verità e artificio, arte e vita, ma non si tratta della ormai obsoleta formula meta-teatrale; qui, ribaltando Pirandello, siamo di fronte a “sei autori in cerca di un personaggio” e non “si recita a soggetto” ma “a smarrimento”. L’andirivieni tra dentro e fuori il canone drammaturgico non è sofisticata stravaganza ma una quasi lacerante necessità frutto di una ricerca che assilla Ferracchiati, il quale da anni indaga in prima persona su ciò che è vero o accettato come tale, se ha senso parlare di normalità, sul ruolo dominante e omologante di regole e convenzioni e quindi sulla funzione sublimatrice che l’Arte può avere a tale proposito, ovvero se attraverso lo spazio controllato di una finzione artistica si possano esperire i propri impulsi vitali. Di fronte al dilemma pirandelliano, “la vita o la si vive o la si scrive”, Ferracchiati sceglie di non scegliere: «Prima la scrivevo, poi dopo un momento di rottura ho iniziato a viverla, ma conosco bene la sensazione rischiosa di quasi far accadere le cose per poterle poi scrivere, rendevo inconsciamente le situazioni che vivevo più estreme così da farle diventare materiale intrigante da elaborare artisticamente. Però ho smesso, era molto pericoloso, si vive su un crinale e ci si può schiantare».
In una costante pericolosa bidimensionalità si muovono perfettamente tutti gli interpreti sempre in bilico fra persone e personaggi. Petra Valentini, nei panni di Hedda Gabler, Francesco Alberici, Giulia Mazzarino, Renata Palminiello, Alice Spisa, e Antonio Zavatteri, sono stati messi a dure prove dall’esigente regista per arrivare a camminare funambolicamente sul filo di questo delicato equilibrio. Anche le scene di Giuseppe Stellato interamente di cartone, palesemente finte, i costumi e l’oggettistica, dal telefonino al pianoforte, dalla rivoltella alla moka, riproducono coerentemente la schizofrenia fra vero e falso, passato e presente. Il tutto è ammantato di leggerezza e ironia e le scene madri, i climax che richiederebbero pathos, vengono raccontate e non interpretate dallo stesso Liv/Løvborg che esplicita tutta la sua inadeguatezza attorica: «Qui ci vorrebbe un Jude Law, un Tommaso Ragno, un Gifuni, io non ce la faccio». L’espediente dell’improvvisazione non sempre però risulta convincente e a volte appare credibile quanto il «Che succede? Che succede?» di Morgan dopo la famigerata uscita di scena di Bugo a Sanremo. Ma indubbiamente ciò che resta di tutta la messinscena è la sua bellezza spiazzante, inafferrabile ed ectoplasmatica come la visione fantasmagorica della tempesta di coriandoli finale. RIPRODUZIONE RISERVATA
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
14 Dicembre 2022