Martedì in seconda serata
Un momento della piece teatrale “Gilgamesh”. Protagonista con Vincenzo Pirrotta, Luigi Lo Cascio (nella foto).

In un mondo liquido, veloce, sempre perniciosamente all’inseguimento della novità, dove prevale chi sbraita per primo non chi dice il vero, chi esterna con prontezza lo slogan più ficcante e urlante non chi argomenta in modo articolato e pacato, chi sa scivolare meglio in superficie e “surfare” con scioltezza rapsodica piluccando da un tema all’altro, chi mette musica leggera perché ha voglia di niente, c’è chi controcorrente non si fa cullare dalle onde del meschino ma si immerge nei profondi abissi del pensiero umano perché ha voglia di assoluto, c’è chi non va a caccia dell’ultim’ora ma va indietro, a ritroso nel tempo fin ai primordi della civiltà, nella culla della cultura dell’umanità, nella Mesopotamia, in quella “terra di mezzo” fra il Tigri e l’Eufrate, per scavare e scovare pietre arcaiche, le tavole paleo-babilonesi, e ritrovare nelle esotiche e millenarie incisioni cuneiformi riverberi escatologici. Questo tuffo nel passato non poteva che avvenire nel luogo dove si condividono sogni e visioni, dove rumore e frenesia lasciano il posto a svelamento e parresia, ovviamente a teatro. Uno sguardo all’origine che però si riflette e illumina il presente enucleando tematiche ineludibili e inossidabili quali il lutto, la morte, l’immortalità, il senso della vita, il desiderio di eterna giovinezza. Un affondo esistenziale che dal palco rimbalza in platea lucido e splendente non vetusto e polveroso, emozionante e struggente non cerebrale e astratto.

Tutto questo è Gilgamesh, una produzione Emilia Romagna Teatro, visto in prima assoluta allo Storchi di Modena e in tournée nella seconda metà del mese nel Nord d’Italia per poi approdare dal 28 febbraio al 5 marzo al Teatro Carcano di Milano. Giovanni Calcagno, autore e regista di questa operazione archeologica, nel senso più autentico di capacità maieutica di partorire luci dal buio del passato, insieme in scena a Vincenzo Pirrotta e Luigi Lo Cascio, fa rivivere le gesta di Gilgamesh, un prototipo di eroe ante litteram e ante tempora, re della città di Uruk dei Sumeri, considerato il primo insediamento urbano del nostro pianeta, un personaggio storico o storicizzato, addirittura un dio o un semidio nell’immaginario, forse solo un mito. La sua è un’epopea, precisamente “di colui che vide le profondità e le fondamenta della terra”, definizione che scaturisce dalla decifrazione della scrittura cuneiforme delle tavolette portate alla luce due secoli fa negli scavi a Ninive, l’antica capitale dell’Assiria.

Il testo di Calcagno, che nel sottotitolo ha sintetizzato il verso riemerso in L’epopea di colui che tutto vide ha l’innegabile merito di valorizzare le molteplici peculiarità di questa narrazione poetica dai tratti epici, ma anche picareschi, psicologici, mitici, con risvolti di romanzo di formazione. D’altronde Gilgamesh viene prima di tutto e contiene in nuce e anticipa i cardini della cultura e religione occidentale: fa pensare ad Abramo che va via dalla sua terra e si fa straniero nel deserto, a Noè e al diluvio, all’odissea di Ulisse e alla sua discesa nell’Ade, al viaggio iniziatico dantesco. Gilgamesh infatti non si fa mancare nulla: lotte sovrumane, imprese eroiche, amori travolgenti, afflizioni, perdizioni, ribaltamenti, agnizioni. Inizialmente è un sovrano protervo, potente e prepotente, temuto e odiato dal suo popolo costretto a soddisfare la sua brama di potere con sanguinose guerre e la sua lussuria subendo lo “ius primae noctis”. Solo l’incontro con Enkidu lo cambierà, con lui stabilirà un’amicizia profonda e totale, ma la morte del suo compagno lo getterà nello sconforto più nero, si spoglierà delle sue vesti regali per intraprendere un cammino alla ricerca del segreto dell’immortalità. Tornerà nella sua città con un nulla di fatto ma con una consapevolezza della finitudine umana e del valore della fragilità che gli permetterà di vivere pienamente il presente e di scrivere la storia della sua esperienza affinché rappresenti un paradigma per le generazioni future. Ma è soprattutto il fallimento, la sconfitta che segna la vita di Gilgamesh, rendendolo dolcemente umano, ad aver affascinato l’autore e regista Giovanni Calcagno che nutre e studia questa epopea da quasi venti anni: «In questa operazione non c’è nulla di intellettuale, la scrittura dei sumeri o degli arcadici è di una limpidezza che si accosta a certe scritture orientali raffinate come l’haiku giapponese, dipinge con la parola e questa essenzialità rende lo spettatore attivo risvegliandolo a un’inquietudine, a “una disperata vitalità” come diceva Pasolini. Si sente una forza che viene dal passato, la vibrazione delle pietre».

«Un mondo di pietra vivissima», sottolinea anche Vincenzo Pirrotta che ribadisce come Gilgamesh sia solo in apparenza lontano ma in realtà «parla di tutti noi, dei nostri desideri, illusioni, dolori e angosce». Sulla stessa lunghezza d’onda Luigi Lo Cascio: «L’invito dell’autore e del regista è stato di farci guidare dalla massima semplicità perché la parabola di Gilgamesh ci appartiene, fa parte dell’essenza dell’uomo. Dal punto di vista interpretativo non c’è da declamare o andare di petto, si può invece sussurrare. Più che marmo è argilla». In effetti a una scenografia totemica e lunare, brulla e spettrale che evoca il paesaggio dei calanchi si contrappone una recitazione fluida e familiare ma sempre poetica, a volte ieratica, mai monotona: la narrazione di Calcagno è incalzante, rigorosa, avvincente, ammantata da sonorità straniere; Pirrotta all’interno di un’interpretazione possente e vulcanica attinge ai pezzi forti del suo repertorio e regala momenti di canto diatonale, suggestivi spaccati cuntisti per descrivere epici scontri e l’aja mola, la “cialoma” intonata dai tonnaroti che issano la rete; Lo Cascio, da sempre convinto che «il corpo dell’attore vada usato come un violino», è come al solito semplicemente carismatico, sia che narri le altisonanti gesta dell’intrepido Gilgamesh, sia che dia voce allo strazio del lutto con echi da prefica.

Sono tre in scena ma sembrano trenta grazie alla loro duttilità ma anche merito di un disegno luci di Vincenzo Bonaffini pulito e a tratti magico, delle musiche psichedeliche e ancestrali di Andrea Rocca e in particolare delle immersive composizioni video di Alessandra Pescetta realizzate con una tecnica macro – time lapse che esalta gli elementi sensoriali e al contempo proietta sensazioni misteriche. Ciò che quindi emerge è una dimensione di sacralità e una spinta verticale che attraversano i 100 minuti dello spettacolo unitamente a un’omogeneità formale dovuta al lavoro registico di Calcagno ma forse ancor più a un retroscena prettamente umano: «Noi più che amici, siamo fratelli, abbiamo condiviso tutto nella vita e nella professione – svela Lo Cascio – e ad esempio il fatto di essere in scena sempre tutti insieme non è nato da un’indicazione registica, piuttosto è scaturito dal desiderio di non volersi assentare e dal piacere di ascoltare l’altro mentre racconta. Tutti e tre abbiamo scelto questo mestiere proprio per stare dentro questi temi esistenziali, dentro queste indagini sul valore della vita e della fraternità. Ricordo che, dopo 4-5 anni che facevo cinema ed ero diventato popolare, ritornai a fare teatro con lo spettacolo La tana, tratto da Kafka per 70-80 spettatori; in quell’occasione un giornalista scrisse: “Non si capisce perché Lo Cascio fa uno spettacolo per una manciata di persone lui che ha raggiunto ormai una notorietà”, era una domanda completamente insensata a mio avviso, questa professione non la si può vivere basandosi su ciò che conviene fare, bensì su ciò che è essenziale, necessario fare». RIPRODUZIONE RISERVATA 

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

10 Marzo 2023

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