In scena il grande dubbio: Cosa resta in chi resta?
Chiasmi e fantasmi, figure retoriche e fantasmagoriche affollano Anatomia di un suicidio, lo sconvolgente testo della trentaseienne drammaturga britannica Alice Birch in scena al Teatro Grassi di Milano fino al 19 marzo, prodotto dal Piccolo e portato per la prima volta su un palcoscenico italiano da quella fucina creativa che è lacasadargilla. L’intrepido collettivo, diretto da Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni, si è imbarcato stavolta in un altro viaggio particolarmente procelloso affrontando un trittico di tabù: la morte, il suicidio e il rifiuto di generare. Non è evidentemente uno spettacolo per animi pavidi. Ma chi si illude di poter vivere brividi gotici resterebbe però deluso, così come tranquillo deve restare chi teme sofismi esistenziali o intellettuali. I chiasmi e i fantasmi, di cui in apertura, non sono astrusità linguistiche o misteriche, ma tangibili, chiari e familiari e sono rispettivamente da un lato gli incroci tra parole, scene, situazioni che attraversano l’intera opera e dall’altro i personaggi che anche quando non sono fisicamente presenti vengono evocati o aleggiano invisibili e comunque condizionano le menti e gli accadimenti.
In effetti se si prende in mano il testo della scrittrice d’oltremanica si prova un forte disorientamento: in pratica il classico foglio A4 è orientato in orizzontale ed è diviso a sinistra, al centro e a destra in tre settori, in ognuno di essi si dipana verticalmente la vicenda con tre ambientazioni diverse e altrettanti differenti archi temporali: passato remoto 1972-1993, passato prossimo 1999-2004 e futuro 2033-2041. Pertanto la lettura deve procedere in parallelo su tre linee narrative ognuna delle quali singolarmente si sviluppa in senso diacronico ma anche simultaneamente alle altre creando un sofisticatissimo ingranaggio ritmico e linguistico e continui rimandi, riverberi, reiterazioni, interpolazioni e intersecazioni. Non a caso l’autrice ha dovuto inventare un’apposita didascalia sulla punteggiatura per suggerire di volta in volta il ritmo delle battute fra una scena e l’altra ed evidenziare pause, sospensioni, dilatazioni o sovrapposizioni. Insomma una complicata e raffinata partitura d’orchestra ma anche una roba da capogiro. Le storie però prese una a una sono piuttosto facilmente leggibili e sintetizzabili: a sinistra, nel passato remoto, c’è Carol, la capostipite di una generazione al femminile. La incontriamo in ospedale che ha appena tentato il suicidio e la seguiamo per 20 anni durante i quali avrà una figlia, Anna, che cresce con grande amore e dedizione. Quando questa sarà quasi donna Carol decide che è maturo il tempo per abbandonare questa vita alla quale non si è mai sentita legata: « Io sono rimasta. Sono rimasta. Finché ho potuto», dice di sé. Al centro, nel passato prossimo, c’è appunto Anna che dopo la parentesi di un’infanzia felice eredita il vuoto che la madre le ha lasciato suicidandosi. Precipita in un vortice caotico di droga, disintossicazione, matrimonio, elettroshock, esaltazione e depressione, vive tutto esageratamente ma alla fine anche lei metterà al mondo una figlia, Bonnie, e anche lei dopo la sua nascita si toglie la vita. Resta dunque a destra, nel futuro, lo sviluppo drammaturgico di Bonnie, l’ultima della progenie, che poco sa della madre e della nonna; lei percepisce, intuisce, indaga, presume e non a caso la sua frase ricorrente è “a quanto pare”. Di certo pure lei è inquieta e cerca una sorta di “centro di gravità permanente” compiendo una scelta anch’essa estrema: si sterilizza per impedirsi la possibilità di procreare, per rompere una catena, un incantesimo, per spezzare il tragico fato e provare a generare amore e bellezza altrimenti, accudendo un coniglio, crescendo dei fiori, rivitalizzando un frutteto.
Tutte e tre queste donne è come se vedessero qualcos’altro, sono mosse da aneliti insondabili più che essere vittime di patologie, sono aliene più che alienate. Ed ognuna di esse è come se racchiudesse in sé le tre Moire: tessono il filo della vita, lo svolgono e poi inesorabilmente lo recidono. E ancora, ogni loro esistenza fa pensare agli ipnotici versi de Il canto delle crisalidi di Carlo Michelstaedter: «Vita morte, la vita nella morte. Morte vita, la morte nella vita». E in tutto ciò i maschi? Ci sono? Sì, e nemmeno pochi, ma sono falene spaurite, sono punti interrogativi ambulanti che annaspano e vanamente tentano di comprendere l’incomprensibile, di afferrare l’inafferrabile. Infine c’è una sola domanda che Alice Birch voleva sollevare con il suo dramma: «Cosa resta in chi resta?», interrogativo che resta inevaso perché l’unica cosa certa è che l’eredità genetica non tramanda le informazioni psichiche e che contesti ed esperienze individuali ci fanno essere altro dai geni dei nostri avi.
Fin qui il testo, ma la messinscena come ha tradotto questo groviglio? Lasciandolo tale ma rendendolo al contempo fluido, scorrevole come un fiume. Non è casuale infatti la presenza dell’elemento acquatico che ricorre visivamente con le suggestive proiezioni video curate da Maddalena Parise e scenograficamente con la scelta di far scivolare spesso lungo la scena gli oggetti (tavoli, palloncini, flebo) e di delimitare lo sfondo con pareti in PVC come fossero labili membrane di pelle. Ma sono solo alcune delle felici intuizioni della coppia registica Natoli-Ferroni di cui vive lo spettacolo che si avvale anche del prezioso lavoro “in levare” con la drammaturgia del movimento di Marta Ciappina e dei sinestetici “paesaggi sonori” dello stesso Ferroni. Doveroso poi nominare tutti e 12 gli interpreti in ordine di apparizione: Tania Garribba, Francesco Villano, Petra Valentini, Fortunato Leccese, Federica Rosellini, Camilla Semino Favro, Marco Cavalcoli, Anna Mallamaci, Alice Palazzi, Lorenzo Frediani, Caterina Carpio, Anita Leon Franceschi. Affrontano un compito eroico (una di loro ad esempio a un certo punto deve ripetere consecutivamente per 110 volte la frase «una bambina» con tonalità e stato d’animo diversi) in quanto chiamati a incarnare personaggi che vivono simultaneamente di vita propria e altrui e a far parte di un’arzigogolata composizione orchestrale: «La difficoltà maggiore – ci svela Alessandro Ferroni – è stata l’assenza di un precedente, abbiamo dovuto inventarci un metodo di lavoro. Gli attori dovevano riempire pause, dilatazioni e io e Lisa ci chiedevamo continuamente: “diamo loro più ore di memoria oppure procediamo col montaggio delle scene?”. Alla fine abbiamo deciso di tenerci al guinzaglio come registi e dare più spazio al rodaggio della memoria collettiva e psichica». Inedite difficoltà, smarrimenti e imprevisti passati in secondo piano però rispetto all’attrazione fatale suscitata dall’insolito testo della Birch: «È stato amore a prima vista – confessa Lisa Ferlazzo Natoli – perché, al di là degli atti di suicidio che ovviamente ci destabilizzano, ciò che prevale nell’opera è lo struggimento per la vita che il personaggio di Anna fotografa meravigliosamente quando dice che “sente l’universo nello spillo di un ago”».
Quello che però rischia di prevalere dopo tre ore di spettacolo, oltre alla genuina ammirazione per la bontà e genialità di una tale operazione, è la sensazione che quell’amore per la vita sia rarefatto, ovattato, tarpato, soffocato da quesiti così sdrucciolevoli e innumerevoli da annullare dinamicità e creare paralisi. Forse oltre al chiasmo un anacoluto ci sarebbe voluto, magari manzoniano: «Quelli che moiono, bisogna pregare Iddio per loro, e sperare che anderanno in un buon luogo; ma non è giusto, nè anche per questo, che quelli che vivono abbiano a viver disperati…». RIPRODUZIONE RISERVATA
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
3 Aprile 2023