Guerritore, il talento puro di Ginger
Una ciurma di umanità varia e variegata si affaccia titubante e impacciata sul palco vuoto, oscuro e lunare. Sembrano gli attori scalcinati della Compagnia della contessa che giungono disorientati a Villa Scalogna nel pirandelliano I giganti della montagna. Ma questa realtà scenica è più prosaica: sono i folkloristici ospiti scritturati da una tv privata per lo show natalizio in cui dovranno fare da tappabuchi all’interno del flusso costante pubblicitario con brevi e sincopati interventi esibendo nella maniera più iperbolica possibile le loro storie e peculiarità. C’è il sosia di Clark Gable, il Lucio Dalla tale e quale, Rita Hayworth in versione trans, Brigitte Bardot aspirante soubrette ma con l’occhio pesto procuratogli dal coniuge maschilista e violento, l’uomo coccodrillo, il detenuto pluriomicida… un caravanserraglio che freme di ritagliarsi uno spicchio di esistenza sotto la luce dei riflettori. In questa corte dei miracoli si stagliano Pippo e Amelia, in arte Ginger e Fred, due vecchie glorie, due attempati ballerini di tip tap dal lontano passato pieno di fasti, ma dal presente ammantato di oblio e decadenza che, ancor più spaesati e sperduti rispetto al resto della brigata, non si riconoscono più in questo circo mediatico.
È l’incipit dell’adattamento del capolavoro felliniano del 1986 che per la prima volta arriva in teatro grazie al lavoro di trasposizione e di regia di Monica Guerritore che veste i panni di Amelia/Ginger affiancata da Massimiliano Vado in quelli di Pippo/Fred. Uno spettacolo (dal 30 gennaio al 4 febbraio alla Pergola di Firenze e poi in tournée fino a marzo) inevitabilmente ardito e ambizioso, corale e articolato, come se ne vedono pochi, che scorre e corre per poco più di un’ora e mezza su due binari, da un lato la denuncia non bacchettona ma leggiadra e a tratti farsesca di certa tv commerciale cinica e cialtrona, greve e grossolana, dall’altro la vena lirica di empatica solidarietà umana verso gli outcast dell’ingranaggio spietato dello show business. Il filone della satira potrebbe suonare datato. D’altronde nelle orecchie e nella mente dello spettatore brizzolato ancora risuonano gli esilaranti e sferzanti svergognamenti della beceraggine televisiva operati mirabilmente dall’Indietro tutta di Arbore e dagli sketch di Lillo&Greg. Il “caso pietoso” (vedi Che l’hai visto?, la sbellicante parodia della coppia appena citata), la pubblicità mirabolante e millantante (come non pensare al mitico “Cacao meravigliao”?), il conduttore un po’ Funari, un po’ Cruciani, un po’ domatore di circo, tutto ciò suona come un déjà vu.
Ma questo già visto, digerito e sedimentato viene illuminato da una sensibilità acuta e poetica, da una pietas struggente, tutte doti riconducibili all’ideatrice e mattatrice di questa impegnativa operazione di adattamento del film felliniano. E Monica Guerritore non nutre dubbi sulla necessità di tenere ancora alta l’attenzione e all’erta la coscienza su quello stesso scenario preconizzato quasi 40 anni fa dal visionario regista romagnolo: «Bisogna sempre prenderne consapevolezza e rimanere svegli. Il teatro serve a questo. Attraverso lo specchio del palcoscenico vissuto in carne e ossa riesci a vedere quelle distorsioni, ci ridi sopra e prendi coscienza di quello che ti abita, che abita la televisione, la tua vita. In questo caso ci si rende conto che il materiale umano all’interno del piccolo schermo viene messo al servizio del consumo. Ginger e Fred, Amelia e Pippo, vorrebbero portare in scena il loro numero intriso di grazia e poesia, ma il presentatore li mortifica subito e gli chiede: “Quanto dura? Sei minuti? Troppo, tagliatelo, deve durare tre minuti”. Non c’è tempo per l’arte, loro chiedono l’orchestra ma gli danno la base registrata. La cosa importante è una sola: arrivare allo stacco pubblicitario». I Ginger e Fred disorientati, smarriti e un po’ impauriti chi sono oggi? «Tutte le persone che arrivano in tv cercando di portare qualcosa di autentico ma che vengono castrati perché tutti i temi devono essere trattati in leggerezza a meno che non sia qualcosa di mostruoso; o c’è superficialità o morbosità, un meccanismo alienato che dalla tv si è riversato sui social. Il problema non è la tv commerciale tout court, la questione è che non ci può essere solo il “cantante mascherato”, il “tale e quale” e questi generi di show un po’ ripetitivi, il pubblico è predisposto anche a nutrirsi d’altro».
Lei ha sempre affermato che «tutto ciò che ha a che fare con l’arte ha a che fare con Dio». Cosa c’è di divino nel suo Ginger e Fred? «La grazia della musica, il Guglielmo Tell di Rossini ascoltato in silenzio e lo struggimento del ricordo che toglie il fiato. Solo l’umanità ha la possibilità di contemplare la bellezza, di immergersi in un colore, in una musica». C’è una speranza? «La speranza sarebbe di poter parlare di sé, di essere qualcuno entrando in quella scatola luminosa e prendere aura e peso, ma è un inganno perché la tv non illumina ma spettacolarizza. Sono decenni che si lanciano gli strali contro una tv volgare e chiassosa, esibizionista e consumista, banale e autoreferenziale». Qualcosa è cambiato? «No, perché il mondo produttivo è incredibilmente pigro, non è pronto a sperimentare. Steve Jobs diceva: «La gente non sa quello che vuole finché non glielo fai capire tu». Il caso del film della Cortellesi, C’è ancora domani, è emblematico, una storia edificante e impegnata che ha incontrato il favore assoluto delle platee cinematografiche. Bisogna sperimentare. A teatro noi lo facciamo. Se mi dicessero: che facciamo? Io lo saprei. I talenti non sono solo i cantanti o gli chef; i campi di indagine sono tanti, le scoperte scientifiche, l’esplorazione dello spazio, come viveva Dante, i grandi classici rivisitati, la biografia degli artisti». A tale proposito riconsiderando in modo rapsodico la sua carriera teatrale, da quell’esordio nel 1974 a 16 anni con Strehler alle esperienze con Missiroli, Romolo Valli, De Lullo, Gabriele Lavia… si è mai chiesta il perché della scelta di una vita per il teatro? «Perché qua c’è la vita vera, le parole vere, i corpi veri, i pensieri fatti carne, nel silenzio, nel buio, nel tempo che ti prendi, nella possibilità di trasformare tutto ciò che qui si vede in un’esperienza personale, senza questo tutto resta piatto e superficiale. Qui ci si allena a immedesimarsi e a soffrire». Che cosa è l’attore? «L’attore sono io sul palco che soffro e tu in platea che piangi».
Una curiosità biografica: è vero che fu lei a suggerire la colonna sonora dei Pink Floyd per lo sceneggiato Rai Manon Lescaut del 1977 in cui era protagonista? «Assolutamente sì, avevo questo 33 giri dei Pink Floyd vicino al letto e sentii subito che era azzeccatissimo, lo dissi al regista Sandro Bolchi e dalla terza puntata fu utilizzato il brano Shine on you crazy diamond. Fu un successo clamoroso ma fu anche la nostra rovina perché è l’unico sceneggiato che non può essere commercializzato in quanto non ha i diritti di quel brano». Restando in tema di sonorità e di episodi del passato conferma anche che Giancarlo Giannini le regalò una musicassetta di 90 minuti incisa su entrambi i lati con la sua voce che declinava “Pronto” con innumerevoli cambi di intonazioni e intenzioni? «Certo. Avrei dovuto capire subito la portata del suo ego». Musica e festival della canzone italiana: a Sanremo 2021 ricordiamo il suo intenso e incisivo monologo su Penelope. Cosa vorrebbe accadesse di importante, di significativo, nell’imminente Sanremo 2024? Se ci fosse la possibilità di lanciare un monito canterei Una piccola ape furibonda di Alda Merini: “Chi regala le ore agli altri vive in eterno”». RIPRODUZIONE RISERVATA
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
31 Gennaio 2024