Gmg di Panama: la conferenza stampa di Papa Francesco sul volo di ritorno
La conferenza stampa di Papa Francesco sul volo di ritorno da Panama dove si è svolta la XXXIV Giornata mondiale della gioventù:
Trascrizione integrale:
Che impatto ha avuto la sua missione a Panama? Che impatto le ha provocato?
«La mia missione, in una Giornata della Gioventù, è la missione di Pietro, confermare nella fede e questo non con mandati “freddi” o precettivi, ma lasciandomi toccare il cuore e rispondendo a quello che lì accade. Io lo vivo così, mi costa pensare che qualcuno possa compiere una missione solo con la testa. Per compiere una missione bisogna sentire, e quando senti vieni colpito. Ti colpisce la vita, ti colpiscono i problemi. All’aeroporto stavo salutando il Presidente e hanno portato un bambino di colore, simpatico, piccolo così. E mi ha detto: “Guardi, questo bambino stava passando la frontiera della Colombia, la madre è morta, è rimasto solo. Ha cinque anni. Viene dall’Africa, ma ancora non sappiamo da quale Paese perché non parla né l’inglese, né il portoghese, né il francese. Parla solo la lingua della sua tribù. Lo abbiamo un po’ adottato noi”. Il dramma di un bambino abbandonato dalla vita, perché sua mamma è morta e un poliziotto lo ha consegnato alle autorità perché se ne facciano carico. Questo ti colpisce, e così la missione comincia a prendere colore, ti fa dire qualcosa, ti fa accarezzare. La missione sempre ti coinvolge. Almeno a me coinvolge. Dico sempre ai giovani: voi quello che fate nella vita lo dovete fare camminando, e con i tre linguaggi: quello della testa, quello del cuore, quello delle mani. E i tre linguaggi armonizzati, in modo che pensiate ciò che sentite e ciò che fate, sentiate ciò che pensate e ciò che fate, facciate ciò che sentite e ciò che pensate. Non so fare un bilancio della missione. Io con tutto questo vado davanti al Signore a pregare, a volte mi addormento davanti al Signore, ma portando tutte queste cose che ho vissuto nella missione e gli chiedo che Lui confermi nella fede attraverso di me. Questo è come cerco di vivere la missione del Papa e come la vivo».
La GMG a Panama ha corrisposto alle sue aspettative?
«Sì, il termometro è la stanchezza, e io sono distrutto».
C’è un problema che è comune in tutto il Centroamerica, incluso Panama e buona parte dell’America Latina: le gravidanze precoci. Solo a Panama sono state diecimila lo scorso anno. I detrattori della Chiesa cattolica la incolpano perché si oppone all’educazione sessuale nelle scuole. Qual è l’opinione del Papa?
«Credo che nelle scuole bisogna dare l’educazione sessuale. Il sesso è un dono di Dio non è un mostro. È il dono di Dio per amare e se qualcuno lo usa per guadagnare denaro o sfruttare l’altro, è un problema diverso. Bisogna offrire un’educazione sessuale oggettiva, come è, senza colonizzazioni ideologiche. Perché se nelle scuole si dà un’educazione sessuale imbevuta di colonizzazioni ideologiche, distruggi la persona. Il sesso come dono di Dio deve essere educato, non con rigidezza. Educato, da “educere”, per far emergere il meglio della persona e accompagnarla nel cammino. Il problema è nei responsabili dell’educazione, sia a livello nazionale che locale come pure di ciascuna unità scolastica: che maestri si trovano per questo, che libri di testo… Io ne ho visti di ogni tipo, ci sono cose che fanno maturare e altre che fanno danno. Dico questo senza entrare nei problemi politici di Panama: bisogna avere l’educazione sessuale per i bambini. L’ideale è che comincino a casa, con i genitori. Non sempre è possibile per tante situazioni della famiglia o perché non sanno come farlo. La scuola supplisce a questo, e deve farlo, sennò resta un vuoto che viene riempito da qualsiasi ideologia».
In questi giorni lei ha parlato con tante persone e tanti ragazzi. E anche con ragazzi che si allontanano dalla Chiesa. Quali sono i motivi che li allontanano?
«Sono tanti, alcuni sono personali. Ma il più generale è la mancanza di testimonianza dei cristiani, dei preti, dei vescovi. Non dico dei Papi, perché è troppo, ma… anche pure. Se un pastore fa l’imprenditore o l’organizzatore di un piano pastorale, se non è vicino alla gente, non dà una testimonianza di pastore. Il pastore deve essere con la gente. Il pastore deve essere davanti al gregge, per indicare il cammino. In mezzo al gregge per sentire l’odore della gente e capire che cosa sente la gente, di che cosa ha bisogno. E deve essere dietro il gregge per custodire la retroguardia. Ma se un pastore non vive con passione, la gente si sente abbandonata o prova un certo senso di disprezzo. Si sente orfana. Ho parlato dei pastori, ma ci sono anche i cristiani, i cattolici. Ci sono i cattolici ipocriti, che vanno a messa tutte le domeniche e non pagano la tredicesima, ti pagano in nero, sfruttano la gente. E poi vanno ai Caraibi a fare le vacanze, con lo sfruttamento della gente. Se fai questo dai una contro-testimonianza. Questo a mio parere è ciò che allontana di più la gente dalla Chiesa. Ai laici suggerirei: non dire che sei cattolico, se non dai testimonianza. Piuttosto puoi dire: sono di educazione cattolica, ma sono tiepido, sono mondano, chiedo scusa, non guardatemi come un modello. Questo si deve dire. Io ho paura dei cattolici così, che si credono perfetti. La storia si ripete, lo stesso accadde a Gesù con i dottori della legge, che pregavano dicendo: “Ti ringrazio Signore perché non sono come questi peccatori”».
Abbiamo visto per quattro giorni questi giovani pregare con molta intensità, possiamo pensare che molti abbiano la vocazione. Forse qualcuno di loro sta esitando, perché non può sposarsi. È possibile che lei permetta a degli uomini sposati di diventare preti nella Chiesa cattolica di rito latino, come avviene nelle Chiese orientali?
«Nella Chiesa cattolica di rito orientale possono farlo, si fa l’opzione celibataria o di sposo prima del diaconato. Per quanto riguarda il rito latino, mi viene alla mente una frase di san Paolo VI: “Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato”. Questo mi è venuto in mente e voglio dirlo perché è una frase coraggiosa, lo disse nel 1968-1970, in un momento più difficile di quello attuale. Personalmente penso che il celibato sia un dono per la Chiesa e non sono d’accordo a permettere il celibato opzionale. No. Soltanto rimarrebbe qualche possibilità nei posti lontanissimi, penso alle isole del Pacifico, ma è qualcosa da pensare quando c’è necessità pastorale. Il pastore deve pensare ai fedeli. C’è un libro di padre Lobinger, interessante, è una cosa in discussione fra i teologi, non c’è una decisione mia. La mia decisione è: no al celibato opzionale prima del diaconato. È una cosa mia, personale, ma io non lo farò, questo è chiaro. Sono uno chiuso? Forse, ma non sento di mettermi davanti a Dio con questa decisione. Padre Lobinger dice: la Chiesa fa l’eucaristia e l’eucaristia fa la Chiesa. Ma dove non c’è eucaristia né la comunità – pensi alle isole del Pacifico – Lobinger chiede: chi fa l’eucaristia? I direttori e gli organizzatori di quelle comunità sono diaconi o suore o laici. Lobinger dice: si potrebbe ordinare prete un anziano sposato, questa è la sua tesi. Ma che eserciti solo il munus sanctificandi, cioè celebri la messa, amministri il sacramento della riconciliazione e dia l’unzione degli infermi. L’ordinazione sacerdotale dà i tremunera: il munus regendi (il pastore che guida), il munus docendi (il pastore che insegna), e il munus sanctificandi. Il vescovo gli darebbe solo licenza per il munus sanctificandi. Questa è la tesi, il libro è interessante e forse questo può aiutare a come rispondere al problema. Credo che il tema debba essere aperto in questo senso per i luoghi dove c’è un problema pastorale per la mancanza dei sacerdoti. Non dico che si debba fare, non ci ho riflettuto, non ho pregato sufficientemente su questo. Ma i teologi ne discutono, devono studiare. Parlavo con un officiale della Segreteria di Stato, un vescovo che ha dovuto lavorare in un Paese comunista all’inizio della rivoluzione, e quando hanno visto come arrivava quella rivoluzione negli anni ’50, i vescovi hanno ordinato di nascosto dei contadini, bravi e religiosi. Poi passata la crisi, trent’anni anni dopo, la cosa si è risolta. E lui mi diceva l’emozione che aveva avuto quando in una concelebrazione vedeva questi contadini con mani da contadino mettersi il camice per concelebrare con i vescovi. Nella storia della Chiesa questo si è verificato. È una cosa da pensare e su cui pregare. Infine avevo dimenticato di citare l’Anglicanorum coetibus di Benedetto XVI, per i sacerdoti anglicani che sono diventati cattolici mantenendo la loro vita come se fossero orientali. Ricordo a un’udienza del mercoledì, ne ho visti tanti col colletto e con tante donne e bambini».
Durante la Via Crucis un giovane ha pronunciato delle parole molto forti sull’aborto: “C’è una tomba che grida al cielo e denuncia la terribile crudeltà dell’umanità, è la tomba che si apre nel ventre delle madri… Dio ci conceda di difendere con fermezza la vita e far sì che le leggi che uccidono la vita siano cancellate per sempre”. Questa è una posizione molto radicale. Le vorrei chiedere se questa posizione rispetta anche la sofferenza delle donne in questa situazione e se corrisponde al suo messaggio della misericordia.
«Il messaggio della misericordia è per tutti, anche per la persona umana che è in gestazione. Dopo questo fallimento, c’è pure misericordia. Ma una misericordia difficile, perché il problema non è dare il perdono ma accompagnare una donna che ha preso coscienza di avere abortito. Sono drammi terribili. Una donna quando pensa quello che ha fatto… Bisogna essere nel confessionale, lì devi dare consolazione e per questo ho concesso a tutti i preti la facoltà di assolvere l’aborto per misericordia. Tante volte, ma sempre, loro devono “incontrarsi” con il figlio. Io tante volte, quando piangono e hanno questa angoscia, le consiglio così: tuo figlio è in cielo, parla con lui, cantagli la ninna nanna che non hai potuto cantargli. E lì si trova una via di riconciliazione della mamma col figlio. Con Dio, la riconciliazione c’è già, Dio perdona sempre. Ma anche lei deve elaborare quanto è accaduto. Il dramma dell’aborto, per capirlo bene, bisogna stare in un confessionale. Terribile».
Lei ha detto a Panama di essere molto vicino ai venezuelani e ha chiesto una soluzione giusta e pacifica, nel rispetto dei diritti umani di tutti. I venezuelani vogliono capire: che cosa significa? La soluzione passa attraverso il riconoscimento di Juan Guaidó che è stato sostenuto da molti Paesi? Altri chiedono elezioni libere in tempi brevi. La gente vuole sentire il suo appoggio, il suo aiuto e il suo consiglio.
«Io appoggio in questo momento tutto il popolo del Venezuela perché sta soffrendo, quelli di una parte e dell’altra. Se io sottolineassi quello che dice questo o quel Paese, mi esprimerei su qualcosa che non conosco, sarebbe un’imprudenza pastorale da parte mia e farei danni. Le parole che ho detto le ho pensate e ripensate. E credo che con quelle ho espresso la mia vicinanza, ciò che sento. Io soffro per quello che sta accadendo in questo momento in Venezuela e per questo ho chiesto che ci sia una soluzione giusta a pacifica. Quello che mi spaventa è lo spargimento di sangue. E chiedo grandezza nell’aiuto da parte di quelli che possono aiutare per risolvere il problema. Il problema della violenza mi terrorizza, dopo tutto il processo di pace in Colombia, pensate all’attentato alla scuola dei cadetti dell’altro giorno, qualcosa di terrificante. Per questo devo essere… non mi piace la parola “equilibrato”, voglio essere pastore e se c’è bisogno di un aiuto, che di comune accordo lo chiedano».
Durante il suo pranzo con i giovani una ragazza americana ci ha raccontato che le ha parlato del dolore per la crisi degli abusi. Tanti cattolici americani si sentono traditi e abbattuti dopo le notizie di abusi e insabbiamenti da parte di alcuni vescovi. Quale sono le sue aspettative e speranze per l’incontro di febbraio, affinché la Chiesa possa ricostruire la fiducia?
«L’idea di questo incontro è nata nel C9 perché noi vedevamo che alcuni vescovi non capivano bene o non sapevano che cosa fare o facevano una cosa buona e un’altra sbagliata. Abbiamo sentito la responsabilità di dare una “catechesi” su questo problema alle conferenze episcopali e per questo si chiamano i presidenti degli episcopati. Primo: che si prenda coscienza del dramma, di che cos’è un bambino o una bambina abusata. Ricevo con regolarità persone abusate. Ricordo uno: 40 anni senza poter pregare. È terribile, la sofferenza è terribile. Secondo: che sappiano che cosa si deve fare, qual è la procedura. Perché talvolta il vescovo non sa che cosa fare. È una cosa che è cresciuta molto forte e non è arrivata dappertutto. E poi che si facciano dei programmi generali ma che arrivino a tutte le conferenze episcopali: su ciò deve fare il vescovo, ciò che devono fare l’arcivescovo metropolita e il presidente della conferenza episcopale. Che ci siano dei protocolli chiari. Questo è l’obiettivo principale. Ma prima delle cose che si devono fare, bisogna prendere coscienza. Lì, all’incontro, si pregherà, ci sarà qualche testimonianza per prendere coscienza, qualche liturgia penitenziale per chiedere perdono per tutta la Chiesa. Stanno lavorando bene nella preparazione dell’incontro. Io mi permetto di dire che ho percepito un’aspettativa un po’ gonfiata. Bisogna sgonfiare le aspettative a questi punti che vi ho detto, perché il problema degli abusi continuerà, è un problema umano, dappertutto. Ho letto una statistica l’altro giorno. Dice: il 50 per cento dei casi è denunciato, e solo nel 5 per cento di questi c’è una condanna. Terribile. È un dramma umano di cui prendere coscienza. Anche noi, risolvendo il problema nella Chiesa, aiuteremo a risolverlo nella società e nelle famiglie, dove la vergogna fa coprire tutto. Ma prima dobbiamo prendere coscienza e avere i protocolli».
Lei ha detto che è assurdo e irresponsabile considerare i migranti i portatori di male sociale. In Italia le nuove politiche sui migranti hanno portato alla chiusura del centro di Castelnuovo di Porto, che lei conosce bene. Lì si vedevano segni di integrazione, i bambini andavano a scuola, e ora rischiano uno sradicamento.
«Io ho sentito voci di quello che accadeva in Italia ma ero immerso in questo viaggio. Non conosco la cosa con precisione, anche se la immagino. È vero che il problema è molto complesso. Ci vuole memoria. Bisogna domandarsi se la mia patria è stata fatta da migranti. Noi argentini, tutti migranti. Gli Stati Uniti, tutti migranti. Un vescovo ha scritto un articolo bellissimo sul problema della mancanza di memoria. Poi le parole che io uso: ricevere, il cuore aperto per ricevere. Accompagnare, far crescere e integrare. Il governante deve usare la prudenza, perché la prudenza è la virtù di chi governa. È una equazione difficile. A me viene in mente l’esempio svedese, che negli anni ‘70, con le dittature in America Latina ha ricevuto tanti immigrati, ma tutti sono stati integrati. Anche vedo che cosa fa sant’Egidio, ad esempio: integra subito. Ma gli svedesi l’anno scorso hanno detto: fermatevi un po’ perché non riusciamo a finire il percorso di integrazione. E questa è la prudenza del governante. È un problema di carità, di amore, di solidarietà. Ribadisco che le nazioni più generose nel ricevere sono state l’Italia e la Grecia e anche un po’ la Turchia. La Grecia è stata generosissima e anche l’Italia, tanto. È vero che si deve pensare con realismo. Poi c’è un’altra cosa: il modo di risolvere il problema delle migrazioni è aiutare i Paesi da dove vengono i migranti. Vengono per fame o per guerra. Investire dove c’è la fame, l’Europa è capace di farlo, e questo è un modo per aiutare a crescere quei Paesi. Ma sempre c’è quell’immaginario collettivo che abbiamo nell’inconscio: l’Africa va sfruttata! Questo appartiene alla storia, e fa male! I migranti del Medio Oriente hanno trovato altre vie d’uscita. Il Libano è una meraviglia di generosità, ospita più di un milione di siriani. La Giordania, lo stesso. E fanno quello che possono, sperando di reintegrare. Anche la Turchia ha ricevuto qualcuno. E anche noi in Italia abbiamo accolto qualcuno. È un problema complesso sul quale si deve parlare senza pregiudizi».
«Vi ringrazio tanto del vostro lavoro. Vorrei dire una cosa su Panama: ho sentito un sentimento nuovo, mi è venuta questa parola: Panama è una nazione nobile. Ho trovato nobiltà. E poi vorrei dire un’altra cosa, che noi in Europa non vediamo e che ho visto qui in Panama. Vedevo i genitori che alzavano i loro bambini e ti dicevano: questa è la mia vittoria, questo è il mio orgoglio, questo è il mio futuro. Nell’inverno demografico che noi stiamo vivendo in Europa – e in Italia sottozero – ci deve far pensare. Qual è il mio orgoglio? Il turismo, le vacanze, la villa, il cagnolino? O il figlio?».
28 Gennaio 2019